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di Gigi Garanzini

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28 gennaio 2010

La formazione della nazionale che ha incontrato l’Olanda in amichevole a metà novembre 2009 (foto di Alberto Sabattini) e quella titolare ai Mondiali del Messico nel 1970 (foto di Cesare Galimberti)

La nazionale italiana a confronto oggi e quarant'anni fa. Allora abbondavano fisici da impiegati del catasto, ancora segnati dai patimenti di guerra. Adesso masse muscolari ipertrofiche allenate a prestazioni estreme. Che spesso portano in infermeria

Due Italie fisicamente a confronto. Quella del 1970 a Città del Messico, la prima, grande nazionale del dopoguerra, e questa di quarant'anni dopo, destinata a giocarsi, pedina più pedina meno, il prossimo mondiale in Sudafrica. Se la mettiamo in termini di statura e di peso, la differenza complessiva è di una sessantina di centimetri e di una cinquantina di chili. Almeno a dar retta agli album della Panini. Cifre che, divise per undici, raccontano di una ragionevole evoluzione della specie, con giocatori mediamente più alti di cinque centimetri abbondanti e più pesanti di cinque chili scarsi. Se parliamo invece di strutture e di masse muscolari, il discorso cambia. A parte Facchetti, atleta fuori norma per quei tempi, i due simil-panzer azzurri erano Riva in attacco e Burgnich in difesa: oggi dal punto di vista fisico il primo non sarebbe "rombo di tuono" né il secondo la "roccia" di allora. Sarebbero tuttora presentabili, così come Bertini e Boninsegna: ma De Sisti, Mazzola, Rosato, Domenghini passerebbero per impiegati del catasto. O vogliamo parlare di Berruti e di Bolt? O mettere a confronto il fisico dei tre sommi mancini argentini del dopoguerra? A parità di (bassa) statura, tra il Sivori degli anni Sessanta, il Maradona degli Ottanta e il Messi del nuovo millennio c'è più di una mutazione genetica. In altre discipline di squadra paralleli del genere, sempre a distanza di un paio di generazioni, sono anche più inquietanti. Nel rugby, per esempio, dove le immagini del Cinque Nazioni di soltanto venti-trent'anni fa rapportate a quelle di oggi non possono non evocare cattivi pensieri.
Sforziamoci di pensare positivo, almeno nel calcio. C'era una volta la "razza Piave", sinonimo di potenza fisica oltre che di temperamento. E poi c'erano quelli che Brera definiva gli italianuzzi, chiamati a supplire con il talento, quando c'era, con il coraggio e soprattutto con l'organizzazione tattica a un'inferiorità fisica pressoché generalizzata. Si riferiva, il gran pavese, a generazioni cresciute in tempi di guerre o dopoguerre, quando il primo gap da superare era quello della mala nutrizione. Teorie oggi superate non perché non fossero fondate, ma perché sono fortunatamente cambiati i presupposti. Tant'è vero che da qualsiasi vigilia internazionale sono praticamente spariti i raffronti sul piano fisico, o atletico: che erano invece il primo punto all'ordine del giorno quando si trattava di affrontare avversari che non fossero latini. Oggi l'Italia è all'avanguardia sia dal punto di vista della preparazione che dell'alimentazione. Al punto che il problema dei nostri tecnici all'estero, e ormai sono tanti, anche ai livelli più alti, è quello di correggere vizi alimentari che da noi sono da tempo spariti. Il guaio è un altro. E riguarda direttamente il corpo, la struttura fisica, muscolare. Il potenziamento continuo, attraverso tecniche sempre nuove di preparazione, e va bene, e il ricorso sempre più generalizzato alla palestra, che in uno sport di destrezza va un po' meno bene.
Il dottor Piero Volpi, una buona carriera calcistica tra la serie A e la C, e poi una più prestigiosa nell'ambito della medicina sportiva, spiega così gli infortuni sempre più numerosi e sempre più gravi che affliggono la categoria: «Si continua ad aumentare la cilindrata, senza tener conto dei limiti del telaio. E se si pretendono prestazioni da Ferrari su una Panda, poi non ci si può stupire se saltano gli ammortizzatori o gli organi di trasmissione». Cioè legamenti, tendini, menischi. Muscolature ipertrofiche rispetto alle strutture. Non a caso mimetizzate dai bragoni che arrivano al ginocchio e da casacche sempre più ampie rispetto ai calzoncini corti e alle magliette attillate di un tempo. Nessun dubbio che il calcio sia diventato più veloce e che i contrasti, di conseguenza, producano impatti più violenti. Ma gli infortuni gravi, salvo rare eccezioni, avvengono o in allenamento o in azioni isolate. Per la buona, anzi pessima ragione che un corpo portato al limite ha più probabilità di rompersi.
Fece rumore, qualche tempo fa, una dichiarazione di Ancelotti a questo proposito. Disse più o meno, l'allora allenatore del Milan, che fare sport a livello professionistico non è più sinonimo di salute. Proprio perché il corpo ha bisogno di continue cure per reggere prestazioni sempre più al limite. Qualcuno equivocò. Ma non era una denuncia, quella di Ancelotti, né si riferiva a pratiche illecite. Era una considerazione sui motori sempre più tirati, sulle terapie coadiuvanti che richiedono, sulle stagioni calcistiche che quarant'anni fa anche le squadre di vertice affrontavano con rose di 16-18 giocatori. Mentre oggi il ritmo degli infortuni è tale che non si è lontani dal doppio. Certo, molto, ma molto più del doppio guadagnano i contemporanei rispetto ai messicani. Ma può essere che nemmeno nel calcio il denaro dia la felicità.

28 gennaio 2010
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